venerdì 5 giugno 2009

Omaggio ad Andrea M.

Ho scoperto l’opera a diciott’ anni, proprio alla fine del liceo. Senza rendermene quasi conto smisi di colpo di ascoltare Mina e i Beatles e passai definitivamente a Verdi, a Mozart e agli altri grandi.
Beh, qualche aria famosa a casa si ascoltava, almeno nei rari periodi che il giradischi funzionava e c’era in giro qualche vecchio disco che conoscevo fin da bambino. Ricordo soprattutto due “Pace mio Dio”, un 78 giri cantato da Maria Caniglia e un 45 giri della Tebaldi. Già a cinque o sei anni mi incantavo, a sentirli uno dopo l’altro e mi meravigliavo per il fatto che fossero uguali eppure diversi; forse da li è nata la mania di avere tante edizioni differenti delle stesse opere. Poca roba comunque. Che cosa fosse davvero l’opera non l’avevo ancora capito.
Sarebbe riduttivo considerare l’opera solo un susseguirsi di belle melodie. E’ la forma d’arte più bella del mondo, la più complessa ed intensa: è musica,letteratura,recitazione,canto, pittura, scenografia: cultura in una parola ma è soprattutto l’espressione di sentimenti in maniera diretta e intensa, senza filtri emotivi, magia,che dire di più? e’ una febbre.
Quando cominciò la mia mania? Forse da un “Pagliacci” alla televisione, forse da una “Traviata” finita per caso tra i miei dischi e solo in seguito ascoltata e riascoltata con attenzione. Quel che è sicuro è che da allora è stato un amore sempre più intenso,mai finora affievolitosi, una febbre –ripeto- che fortunatamente non mi è ancora passata.
Dopo un Liceo fiaccamente frequentato, per me venne l’ Università, un inizio disorientato e poi la scoperta inebriante dell’ Istituto di Storia della Musica e di docenti che non erano travet della cattedra, ma veri Maestri di cultura e di vita, amavano quello che facevano e rispettavano i loro discepoli. La frequenza in quel posto che ancora ricordo come un paradiso, un mondo esemplare, per me fu inevitabile, e la scelta, altrettanto inevitabile anche se temeraria, visto che non conoscevo la musica, fu di fare una tesi di laurea sul melodramma: La decisione a casa non destò troppi entusiasmi: Erano davvero crociani a casa mia: per loro l’Italiano o la Storia erano materie “serie”, la musica era bella si, ma serviva solo per divertirsi. Scelsi per argomento le opere giovanili di Verdi e mi si presentò subito un grosso problema: non tutte erano state ancora incise. Cominciò allora l’affannosa ricerca di dischi che spesso non esistevano. La tesi urgeva e la mia scarsa preparazione musicale non mi permetteva di analizzare compiutamente le opere sulla partitura o di ripassarle al piano. Dovevo sentirle. Come fare?
Ma non era solo quello. Amavo i dischi. Ah i negozi di dischi! Un mio amico dice che quando ci entravo avevo l’espressione famelica e sofferta del cane randagio davanti a una macelleria. Era vero, credo. I pochi soldi che raggranellavo finivano tutti in dischi, ma erano assolutamente insufficienti a placare i miei desideri di melomane, di aspirante musicologo, di collezionista.
Un giorno entrai da Ricordi e chiesi dell’ Alzira. Sapevo che non esisteva un’incisione ufficiale, ma speravo che forse, tra quei cofanetti rari, preziosi e disadorni che arrivavano ogni tanto dall’ America e che i collezionisti si passavano di mano quasi come fuorilegge..…forse.… si poteva trovare. Erano i famosi bootlegs, i primi dischi “pirata”. MRF, Morgan Records, GoP. Niente da fare, mi disse la signorina, l’ Alzira non c’era e non si poteva neppure ordinare.
In quel momento vidi che un signore anziano mi osservava interessato e sorrideva. Piccoletto, calvo, un cappottone che forse era stato elegante trent’anni prima,ma ora era fuori moda: età indefinibile, certo oltre i sessanta. Ma aveva un che di fanciullesco, soprattutto nello sguardo. Col tempo mi sono reso conto di quanto somigliasse a Cucciolo dei sette nani, anche per la calvizie e le buffe orecchie a sventola che mostrava quando si toglieva il quasi immancabile cappello.
Mi si avvicinò discreto e mi chiese “Com’ è che cerca l’ Alzira?” Glielo spiegai e subito mi disse -Io se vuole posso registrargliela. Mi dia le cassette vuote.
- E come fa ad averla?
- Ho molte registrazioni dalla radio.
Lo sapevo anch’io che alla radio trasmettevano le opere, spesso erano rarità (da mesi non me ne perdevo una) ma negli ultimi tre-quattro anni l’Alzira non l’avevano certamente trasmessa.
Comprai le cassette, gliele consegnai, mi diede il suo numero di telefono e mi disse di chiamare dopo un paio di giorni.
Qualche giorno dopo esitante chiamai. Confermò che l’ Alzira era pronta.
- Mi aspetti davanti al Politeama tra un ‘ora,, che gliela porto.
Ascoltandola scoprii che l’aveva registrata benissimo. Aveva rispettato la musica, non aveva fatto brusche interruzioni nelle facciate, aveva diligentemente copiato il cast completo e messo persino l’anno di registrazione sulla copertina. Non era l’ edizione della RAI ma la prima ripresa moderna in teatro (Roma 1967 con una meravigliosa Virginia Zeani). Un lavoro coi fiocchi. Meravigliato (i “vecchi” di solito erano pasticcioni in quel tipo di lavori) lo ringraziai calorosamente e lui incoraggiato attaccò a discorrere.
- Allora Lei è un professore?
- Ancora no. Sono solo uno studente di lettere. Ma mi dia del tu.
- No! Lei è un professore, lo sarà tra poco.
Era rispettoso o ironico?
- E che c’entra la lirica con le lettere?.-Continuò- Ai miei tempi mi pare che le lettere erano l’italiano, la storia, la geografia e la grammatica.
- Si, ma a Lettere si studiano anche altre materie di interesse culturale, come la storia dell’ arte e la storia della musica.
- Davvero? Mi fa piacere! Non lo sapevo. Ma lei le opere le ascolta per studio o perché le piace?
- Tutte e due cose. Ma le studio soprattutto perché ne vado pazzo, anche se ancora non sono un esperto. Ho cominciato da poco.
- Mi fa piacere! Pensavo che ormai l’ opera piacesse solo ai vecchi come me, invece lei è giovane.
Lo studiavo. Mi aveva colpito la sua grafia incredibilmente elegante sulle cassette. Allora non sapevo che un qualsiasi alunno di quinta elementare del 1915 aveva una grafia assai migliore di quella di un laureato del 1978. Non doveva avere un gran titolo di studio, ma parlava abbastanza bene, era intelligente, spiritoso e informatissimo.
Parlammo ancora un po’. Con molto garbo mi fece una specie di esame, voleva sapere quali fossero le opere che conoscevo, quali i miei autori e i cantanti preferiti. Spesso annuiva, qualche volta dissentiva, ma sorrideva. In complesso compresi di averlo superato l’esame.
Parlava un italiano fondamentalmente corretto anche se venato di inflessioni dialettali palermitane.
Imparai come l’accento palermitano sia adorabile in alcuni casi. Questo era uno di quelli. Il signor Andrea era ricco di humor e ricorreva ogni tanto ad espressioni dialettali spiritose. Aveva soprattutto un suo gergo personalissimo che col tempo imparai a decifrare: “Matello” = buffone poco affidabile. “Mastro Pietro” accompagnato da un certo gesto con la mano = quel cantante non ha voce, e così via.
E conosceva tutto: le opere, i cantanti, gli autori, persino la storia della musica, sia pure a livello aneddotico. Cominciavo a sospettare che a casa avesse molti, molti dischi, ma non mi sembrava il caso di chiedergli subito altre cose: meglio tenerselo buono e non seccarlo, poteva essermi ancora utile, in casi estremi . Invece mi lesse nel pensiero.
- Senta, ho pure “Stiffelio”, “Aroldo” e la prima versione del “Simon Boccanegra”. (erano le altre tre opere di Verdi che ancora non esistevano in disco) Le interessano?
- Altrochè! Ma non gliele avevo chieste perchè mi sembrava maleducato approfittare ancora.
- Che vuol dire? A lei servono per lo studio! Guardi, gliele registro e lei poi mi paga le cassette.
Toccai il cielo con un dito. La mia tesi era ormai quasi a posto. La Philips aveva annunciato la pubblicazione de “La battaglia di Legnano” e quindi ormai avevo tutti i titoli a disposizione.
A quel tempo avevo già un bel gruzzoletto di opere che sentivo e risentivo, ma non ero mai andato a teatro. Passavo spesso davanti al Politeama, (il Massimo allora era chiuso per il famoso restauro). Mi sembrava un luogo fatato e inaccessibile. In ogni caso era inaccessibile alle mie misere tasche. Ma le grandi scoperte non erano finite. Venni a sapere da un collega che a teatro si poteva entrare anche gratis. Che c’era una cosa chiamata claque, cioè delle persone che entravano senza pagare, solo per applaudire i cantanti agli ordini di un addetto. Mi sembrò incredibile, ma a quanto pare era proprio vero: si poteva andare in Paradiso in carrozza e per giunta gratis.
E scoprii anche che per entrare in teatro (luogo mitico per lo studentello paesano) non era indispensabile avere l’ abito di gala. Feci i salti mortali per conoscere il signor Emanuele, il capo claque. Non fu difficile. Ormai ero a posto. In jeans e maglione arrivavo, mi spellavo le mani, ma non solo per dovere contrattuale, quanto per entusiasmo sincero. Letteralmente mi inebriavo di quel mondo, di quelle luci, quei suoni e quelle immagini. E ancora oggi il sipario chiuso e l’orchestra che accorda mi danno un’emozione e una gioia incredibili. Assistevo quasi in trance allo spettacolo e poi via di corsa alla stazione per tornare in paese. Ma non c’era levataccia o veglia prolungata che mi potesse più trattenere. Ascoltai Salome, Porgy and Bess, Il Guarany per la prima volta in teatro. Di Macbeth ne vidi dieci recite su dodici. Se c’era il tempo aspettavo i cantanti a fine spettacolo, cercavo di conoscerli, ci scambiavo due battute e magari ottenevo un autografo o una foto con dedica. Ma vedere le opere dal vivo, specie quando le conoscevo, mi rivelava un piacere nuovo: l’ emozione di aspettare le difficoltà palpitando e gioendo quando venivano superate brillantemente. Ancora oggi a teatro la mia anima canta assieme ai cantanti e condivide i pericoli,le tensioni e le gioie. Amo profondamenteil canto.
Il problema era il solito: i pochissimi soldi di cui disponevo, ma per il treno avevo l’abbonamento mensile per studenti. Ormai partivo quasi ogni giorno con la scusa di andare alle lezioni dove in effetti passavo la mattinata, poi mangiavo un panino e aspettavo tutto il pomeriggio che arrivassero le fatidiche 18. O le 17 la domenica. (chi sa che scusa trovavo per partire la domenica?) Solo le “prime” cominciavano tardi e sarebbero state un problema, perchè non c’erano più treni per tornare, ma alle prime credo che non si entrasse con la claque. E allora, chi se ne fregava?
A teatro incontravo spesso il signor Andrea. Negli intervalli, se lo intravedevo, andavo a trovarlo e gli chiedevo giudizi e notizie. Sapevo che di voci ne capiva più di me. Io ero ancora acritico e inesperto. Lui notava i difetti dei cantanti (ma mai con cattiveria) e soprattutto aveva i termini corretti di paragone che a me ancora mancavano.
- Ci piaciu u tenuri? Si? Ma l’ ha mai sentito Corelli in quest’ aria? Si sa, di Callas ce n’ è una sola eppure questa di stasera non era male…. La Tebaldi era molto meglio a teatro che nei dischi.
- Perché lei li ha sentiti?
- Certo, tante volte, ma non solo qua a Palermo.
- E dove?
- A Catania, a Napoli, a Londra, a Nuova York.
- E come a New York?
E per la prima volta mi raccontò di sé. A 16 anni, con la quinta elementare, si era imbarcato come cameriere di bordo sui grandi piroscafi che facevano la rotta transatlantica: Genova – Palermo - New York. E lo aveva fatto per più di quarant’ anni. Poi era andato in pensione. Ma ora quelle navi non c’ erano più, concluse con tristezza, ora ci sono gli aeroplani. Quelle navi portavano i grandi cantanti dall’Europa all’America e viceversa. Lo sa che studiavano a bordo le parti?
E al primo viaggio di ritorno da New York aveva visto Caruso malato che tornava a morire a Napoli. Aveva conosciuto Puccini e visto Toscanini tante volte (ma non dava confidenza a nessuno), e poi tutti, proprio tutti i grandi cantanti del passato. Beniamino Gigli poi era amico suo: gli aveva regalato un grammofono. E aveva dischi, foto con dedica, cimeli. Mi girava la testa.
Facemmo amicizia. Diventò una piacevole abitudine chiamarlo ogni tanto, fargli gli auguri per le feste, incontrarlo ogni volta che potevo. E lui sembrava gradire la mia compagnia e le mie attenzioni. Ma non mi volle mai dare del tu, nonostante i cinquant’ anni e passa di differenza. Io ero “il professorino”. Conobbi i suoi amici i vecchi melomani collezionisti. Ma in genere non mi erano simpatici quanto lui. Lui era diverso. Poi un giorno, finalmente, mi concesse di andare a casa sua. Ero elettrizzato. Avrei finalmente visto la sua favolosa collezione di dischi? Mi spiegò dove abitava e ci andai.

Avete presente i vicoli della vecchia Palermo fatiscenti e bui, tipici di Cinico TV? Il posto era di quel genere. Una stradina sporca, e angusta, un vecchio portone di ferro arrugginito che dava su una scala da film horror. Il campanello pendeva, appeso a un filo attorcigliato. Suonai e lui si affacciò dal balcone e mi invitò a salire.
Mi venne ad aprire una creatura incredibile che scoprii essere sua cognata. Una goffa, buffa, caricaturale bambolona: alta non più di un metro e quaranta, obesa, semicalva. Radi ciuffi biondicci lasciavano la testa scoperta a chiazze e le scendevano sulle spalle strette che si dilatavano su un corpo a forma di uovo. Una specie di matrioska che si muoveva lentamente e macchinalmente, sempre in vestaglia. Due occhi celesti assolutamente ingenui e inespressivi ti guardavano meravigliati e vacui. Parlava con una incredibile cadenza buffa, in un dialetto strettissimo quasi incomprensibile. Mostrava un atteggiamento un pò da bambina, un pò da demente, ma era bonaria e cordiale o almeno lo divenne col tempo,dopo l'iniziale diffidenza. E conobbi anche suo marito, il fratello del signor Andrea: perennemente in pantaloni di pigiama e canottiera (anche lui sembrava uscito da un film di Ciprì e Maresco): era un pò più giovane e straordinariamente somigliante al fratello, ma tanto diverso intellettualmente: decisamente più simile alla moglie. Mi accolse comunque cordialmente anche lui.
- Ah pure a lei ci piace a musica, comu a me frati!. A mia puru mi piaci a musica. E me lo dimostrò: cominciò a cantare“ Mia cara matre, sta pe trasì Natale…”
Ma il signor Andrea troncò la discussione e mi condusse di là. Capii allora perché ci aveva messo tanto a farmi andare a casa sua: forse temeva il mio giudizio.
Ma le sorprese erano appena cominciate. L’ appartamento era composto da tre grandi stanze scure e un po’ polverose con annesso un cucinino. Quella d’entrata, molto ampia, aveva un tavolo nel mezzo e tutte le pareti occupate da grandi armadi anonimi, sopra i quali stavano grandi scatoloni. Anche l’unica stanza da letto (due letti uno matrimoniale e uno singolo, divisi da una coperta appesa al tetto che fungeva da separè) era piena di armadi e la piccola cucina aveva ben due file di modesti pensili di teak, una sopra l’altra. Mi accorsi ben presto che tutti i mobili di casa contenevano dischi, bobine, cassette e materiale audio. Persino i pensili della cucina contenevano tre strati di nastri. I pochi piatti, bicchieri e stoviglie stavano in una credenzina in un angolo.
In tutto quel bailamme il signor Andrea si orientava a meraviglia. Non aveva elenchi, non aveva schedari, non aveva appunti,ma sapeva sempre e con assoluta precisione dove si trovasse qualsiasi cosa e la andava a prendere con sicurezza infallibile. Intendo dire che sapeva in quale stanza, in quale armadio, in quale ripiano, in quale fila si trovasse quel che cercava,nonostante non ci fosse una logica apparente nella sistemazione. In anni e anni non l’ ho visto sbagliare mai.

Non solo: Se gli chiedevi: Che opere rare ha di Donizetti? Che ha con la Zeani, con la Gencer o con Beverly Sills? Che edizioni ha del Rigoletto?- rifletteva un pò e te le snocciolava una ad una e non credo che ne dimenticasse mai una sola. Ma era anche in grado di ricordare dove, quando, e con quale dei suoi quattro registratori aveva fatto quella registrazione (particolare importante – mi spiegò - perché a leggere una bobina con un altro apparecchio la qualità audio sarebbe stata alterata).
Possedeva almeno due grammofoni a tromba, tre giradischi degli anni ‘40, ‘50 e ’60, un buon impianto Hi Fi perché -mi spiegò- ogni disco va suonato con l’apparecchio giusto, quello del suo periodo. (Com’è vero!). Dovetti fare appello a tutta la mia buona educazione per interrompere la visita quel giorno: non sarei uscito più da quella casa.
Inutile dire che le visite divennero frequenti. Mi mostrava i suoi tesori con l’orgogliosa soddisfazione tipica dei collezionisti. In quel periodo mi comunicò che aveva deciso di fare una specie di inventario: si faceva vecchio –disse- e la memoria non lo aiutava più come prima. Non era vero, ma un elenco era troppo interessante e facile da consultare per non incoraggiarlo all’opera. Mi offrii di aiutarlo, (offerta a dire il vero interessata: agognavo di mettere il naso in quel tesoro), ma rifiutò cortesemente:
-Lei deve studiare e io non ho niente da fare. A poco a poco ci riuscirò .

E difatti lo fece con una certa velocità. E vedere gli elenchi era tutta un’altra cosa: i miei appetiti di collezionista aumentarono vertiginosamente, ma non potevo ragionevolmente pretendere che passasse settimane intere a registrare cassette per me. Ma visto che i miei desideri crescevano, mi propose lui stesso di prestarmi un grande registratore a bobine: mi avrebbe dato tutti i nastri che volevo e li avrei copiati a casa con comodo. Se tra chi mi legge c’è un collezionista incallito, quindi patologicamente geloso dei suoi “tesori”, sa quanto valore potesse avere una tale offerta. Era una grande dimostrazione di affetto e di fiducia. Ne approfittai, ma con la maggiore parsimonia possibile. E lui lo capì e gradì.
Ma ormai non ci legava solo l’opera; erano deliziose anche le passeggiate che facevamo quando talvolta lo incontravo in centro o decidevamo di uscire. Andavo per offrirgli qualcosa, ma cercava di pagare sempre lui: Dio, quanto mi ci volle per riuscire a offrirgli un semplice caffè
- Lei è studente e gli studenti – mi perdoni - sono sempre senza "picciuli". Lasci fare a me. E poi ai ragazzi i soldi servono.
Aveva capito che ero “di buona famiglia” come disse lui, ma decisamente squattrinato (questo non me lo disse mai).

Poco a poco mi raccontò altri particolari della sua vita. Aveva dodici fratelli e sorelle, ma non era in buoni rapporti con nessuno, tranne che con quello con cui viveva.
Era rimasto presto orfano di padre, aveva adorato la madre con cui aveva sempre vissuto,almeno quando non era in viaggio, e alla quale, con la buonuscita e i risparmi, aveva comprato un appartamento “da signora”. Ma morta lei, i suoi fratelli pretendevano di spartirselo quell'appartamento, come se fosse di tutti e aveva dovuto sostenere anche una causa che aveva vinto. Ma ora lui per ripicca lo teneva chiuso. Non ci andava spesso. Dentro ci teneva solo i dischi (colpo al cuore per me – difatti avevo notato che quelli che teneva in questa casa, anche se tanti, erano troppo pochi rispetto agli elenchi) ma “per ora non ci si poteva andare”. Non indagai oltre sul perché. Aggiunse però che se volevo qualcosa, bastava dirglielo e in un paio di giorni sarebbe andato a prenderlo. Ah quanto avrei pagato per entrare in quell’Eden di vinile!
Sul treno di ritorno ripensavo a questa madre adorata morta a 98 anni, al suo ostinato celibato, alla sua vita strana, tutta consacrata ai dischi e all’opera. Non tentai mai di approfondire la questione, non era il caso. D’ altra parte lui non sembrava minimamente intenzionato a scoprirsi oltre e comunque non pareva avere interessi equivoci nei miei confronti. Mai fece un’ allusione, mai si tradì. E allora perché era così gentile con me? Forse gli stavo simpatico per il mio entusiasmo verso l’ opera, forse si sentiva solo,almeno intellettualmente. Per anni la nostra amicizia continuò discreta e serena, approfondendosi lentamente ma progressivamente, pure restando in apparenza distaccata, sempre un po’ cerimoniosa e per certi versi surreale.

Mi laureai finalmente e lo invitai al semplice rinfresco che i miei parenti cittadini avevano organizzato per me. Declinò l’ invito. Insistetti a lungo senza poterlo convincere. Fu irremovibile. Addusse improbabili impegni, poi disse che quel giorno dovevo stare solo coi miei, che in quell’occasione lui non c’entrava. Capii che era timido e forse un pò diffidente. Probabilmente temeva giudizi malevoli, per il nostro strano, anche se innocente rapporto. Mi chiese però a che ora avrei preso il treno dopo il buffet e a sorpresa si fece trovare alla stazione. Aveva un regalo per me. E che regalo! Una copia della Maria Stuarda di Donizetti con Beverly Sills. Introvabile allora e da me molto desiderata. Stampa americana. Splendida. Inutile dire che ancora la conservo gelosamente. Mi commosse.
Dopo la laurea cominciai subito ad insegnare e naturalmente le mie gite a Palermo si diradarono, quindi lo vedevo meno spesso. Ma ogni tanto lo chiamavo. E ogni volta che tornavo in città, immancabilmente andavo a trovarlo.
Passavano gli anni. Sembrava sempre uguale. Quando usciva era sempre inappuntabile, coi suoi cappottoni anni quaranta che non mancava mai di indossare se non a luglio e agosto. Coi suoi gessati grigi, eleganti e fuori moda e con l’immancabile busta di dischi o adesso di CD sotto braccio.
Comprava meno dischi di prima. Era meno interessato ai cantanti giovani, ma il suo giudizio era sempre lucido e intelligente. Aveva un pregio rarissimo tra i vecchi appassionati: non era un’ottuso “laudator temporis acti”. Era aperto alle novità e notevolmente curioso.
Ora anch’ io ero in grado di registrargli cose che non aveva (e che gradiva moltissimo): conoscevo i suoi gusti e raramente sbagliavo. Ma ogni omaggio che gli facevo, la volta successiva lo ricambiava con uno di valore uguale o superiore.
Un inverno fu molto freddo e lo vidi un po’ affievolito. Sembrava stanco, sorrideva meno ed era dimagrito, lui che pure era cosi smilzo. Somigliava meno al Cucciolo dei sette nani. Andava raramente a teatro e ormai usciva poco. Mi disse che era triste. I suoi coetanei, gli amici che frequentava, con cui ascoltava e scambiava musica, a poco a poco erano morti tutti: l’ ultimo il mese prima. Era uno un pò fanatico, gli era stato antipatico per anni, ma ora gli mancava persino lui.
- E oramai non andrò più in giro a vedere le opere –concluse-. Si figuri che prima arrivavamo a Bari, a Napoli, a Cosenza. Col treno, col pullman,con la macchina. Ora che sono solo non mi va più di muovermi. Peccato. Il mese prossimo a Catania c’è una bella edizione de “Il Pirata” di Bellini. Canta la Aliberti, la conosce?, è siciliana, è di Messina come lei; è brava.
Fu un lampo: finalmente forse potevo fare qualcosa per lui. Organizzai tutto, acquistai i biglietti, e con la mia utilitaria partii dal paese, andai a prenderlo a Palermo, lo portai a Catania, assistemmo all’ opera, lo invitai a una veloce cena e lo riportai a Palermo. E poi via a casa. Fu un vero tour de force, arrivai all’alba, ma ero soddisfatto. E anche lui, anche se molto stanco, era felice come un bambino. E non credo che dipendesse solo dall’opera che aveva visto.
Per Natale lo chiamai, ma non rispose nessuno e neppure a Capodanno. Mi preoccupai, ma non sapevo a chi chiedere notizie, non avevamo amici in comune, e forse per la prima volta mi resi conto che ormai doveva essere piuttosto vecchio. Ma quando finalmente tornai a Palermo, lo incontrai sotto i portici di Piazzale Ungheria.
Era un pò ingrigito, ma non sembrava stare troppo male. Mi fece una gran festa e andammo al bar. Era stato malato, era finito in ospedale e anche suo fratello era stato male. Ecco perché per le feste nessuno rispondeva al telefono. Mi disse che aveva deciso di regalare il famoso appartamento ai parenti ingrati. Meglio fare pace concluse: “una volta si campa”. Ma si era portato tutti i dischi a casa. Aveva preso degli altri scaffali per sistemarli. Poi mi chiese a bruciapelo: li vuole comprare tutti i miei dischi i nastri e gli apparecchi? E mi chiese una cifra bassissima, assolutamente ridicola. Io rimasi perplesso e gli chiesi perché: Mi addusse motivazioni assurde: si era stufato, erano troppi, voleva liberare la casa. Incalzai: E perché lo chiedeva a me? E perché chiedeva così poco? C’erano molti collezionisti a Palermo che avrebbero fatto follie per i suoi tesori. Mi rispose in maniera vaga e poi cambiò discorso. Rifiutai, non mi sembrava giusto.
Ah che stupido sono stato! Come ho fatto a non capire? Era un modo garbato e distaccato di regalarmi il tutto. (Probabilmente la cifra simbolica, serviva solo a liberarmi da eventuali fastidi coi suoi rapaci eredi). Ma non ne avrei mai approfittato. Anche a pagare quel materiale, avendone la possibilità, cento volte di più di quanto mi aveva proposto, mi sarei sentito troppo in colpa a sottrarglielo, almeno finchè era vivo e poteva goderselo.
Non potevo immaginarlo, ma fu l’ ultima volta che lo vidi: Nelle settimane seguenti chiamai e richiamai, ma ancora una volta il telefono taceva. Lo ricordo ancora a memoria quel numero. Purtoppo passò diverso tempo prima che potessi tornare a Palermo. Quando potei farlo, proprio mentre mi dirigevo verso casa sua, incontrai un conoscente comune che mi disse a bruciapelo: “Lo hai saputo che è morto il signor Andrea?”
Me lo aspettavo, lo temevo, ma il colpo fu notevole. Andai subito a casa sua. Bussai. Nessuno. Neppure i vicini sapevano niente, provai ad informarmi, ma non ebbi alcuna notizia; un palermitano di un quartiere popolare non dà volentieri notizie sui vicini a uno sconosciuto. Ritornai ma inutilmente altre volte. Mi misi il cuore in pace.

Passò qualche anno. Non c’ero più tornato da quelle parti. A fare che? Evitavo addirittura quella zona. Neppure adesso ci passo volentieri. Via Cluverio, Via Houel, le stradine interne….Mi fa troppa tristezza. Poi un amico, anche lui melomane e collezionista, mi convinse a tornarci. “Pensa che quei tesori magari finiranno buttati in qualche discarica o dispersi nelle bancarelle. Tentare di acquistarli è anche un modo di onorare la memoria del tuo amico”. Potrei condividere la spesa con te….. – Siamo strani i collezionisti. Lui sognava di mettere le mani su qualche disco raro, io esitavo, mi sembrava ancora di profanare la sua memoria. Mi sentivo in colpa soprattutto per non essergli stato abbastanza vicino nell’ ultimo periodo. Poi, per le insistenze del mio amico mi decisi e tornai in quella buia stradina.
Bussai senza farmi troppe illusioni e invece, incredibilmente si aprì il balcone e si affacciò la cognata – matrioska.
Non mi riconobbe. Eppure non era passato troppo tempo. Poi, a poco a poco sembrò ricordarsi, sia pur vagamente, ma non di me, quanto di quel periodo e degli amici che venivano a trovare il signor Andrea. Ma non volle lo stesso aprirmi: aveva paura. Tuttavia se il mio nome e la mia faccia non le dicevano più niente, era il ricordo di un passato evidentemente migliore che a poco a poco sembrò riaffiorarle in mente, e si mise a parlare, sempre dal balcone, e mi raccontò gli eventi degli ultimi anni. Farfugliava, molto confusamente, e si mise presto a piangere, Parlava sempre più accorata, con la voglia torrenziale di sfogarsi tipica di chi vive solo da troppo tempo.
Il signor Andrea, era morto dopo una breve malattia e poco dopo era morto anche suo marito. Anche lei era stata male, era finita all’ ospedale e durante la sua degenza qualcuno aveva forzato la porta e svaligiato la casa. Avevano portato via tutto. E ora lei era sola… sola… sola…. Nessuno l’ aveva aiutata a farsi dare la pensione, non aveva nessuno che le andasse a comprare le medicine…. Lo ripetè mille volte. E piangeva, piangeva, tragicamente buffa, come un surreale pupazzo dagli occhi celesti inespressivi, con le ciocche sparpagliate, sempre più rade, che da bionde ora erano biancastre.
Rimasi ad ascoltarla un bel pezzo, poi, oppresso da una ridda di sensazioni penose, la salutai e me ne andai. Per strada riflettevo: credo persino di avere un’idea di chi possa essere stato il mandante del colpo. Era stato chiaramente un furto su commissione. Pianificato per bene ed eseguito al momento opportuno. Per prendere e portare giù tutta quella roba saranno occorsi almeno una notte, diverse e robuste braccia e se non un Tir, certamente un grosso furgone.
Oggi quel che non sarà stato distrutto durante il saccheggio o buttato da chi non era interessato, è in casa di qualche ricco, cinico collezionista. Uno di quelli che a quanto pare, avevano fatto offerte di acquisto al fratello, col signor Andrea ancora steso sul letto di morte, poco prima del funerale. Ma non è questo che mi fa più rabbia. Mi dispiace soprattutto che in quel colloquio non pensai di chiedere alla povera donna dove fosse sepolto il signor Andrea. Mi sfuggì di mente, non so perché.
Ci sono tornato ancora, ma nessuno abita più là. E io non ho mai portato un fiore sulla tomba del mio amico, Ma il suo ricordo gentile, il suo sorriso, la voce ironica, gli occhi vivi e allegri, quella faccia che somigliava tanto al Cucciolo dei sette nani, me li porterò sempre dentro.

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