venerdì 5 giugno 2009

O tempora O mores !



Qualche giorno fa un mio amico incallito collezionista come me mi ha dato una registrazione poco nota di "Un ballo in maschera" effettuata a Parma nel 1983. Nei ruoli principali tre cantanti che ebbero fama e onori ma di cui oggi si parla poco: Matteo Manuguerra baritono, Olivia Stapp soprano e Ottavio Garaventa tenore. Il primo è morto poco più di dieci anni fa, nel 1998, ha inciso abbastanza, con le grandi case discografiche ed aveva una voce splendida ma quasi nessuno sembra ricordarselo. Lo ricordo io invece, in un Ernani a Palermo (cantava Don Carlo ovviamente) in precarie condizioni di salute portare a termine una recita anche se barcollante,con la pressione altissima ma che voce! Che acuti! Che emissione! Grande.
Anche la Stapp, americana, cantò a Palermo una Lady Macbeth eccezionale. Era una voce tra il soprano e il mezzo, ma aveva acuti fulminanti, una eccellente capacità virtuosistica e un trillo formidabile. Credo che viva in America adesso.
Garaventa l'ho sentito diverse volte in giro per l'Italia e di lui ho diverse registrazioni dal vivo, in genere di opere rare. Ah che voci! Che tecnica! Chi si ricorda, più se non gli incalliti affezionati, di questi grandi cantanti e di tanti altri?
E oggi si sente parlare di Andrea Bocelli come di un grande tenore. A questo punto è arrivata la lirica? Bocelli che mette gli acuti nel naso. Che sembra vomitare alla fine di ogni frase (ascoltate "O Lola chi hai di latti la cammisa" nella sua incisione della Cavalleria) e che bela e non possiede neppure l'idea di cosa sia legato ed emissione corretta. Che fraseggia inerte e scolastico come neppure un alunno di conservatorio. Eppure ci sono legioni di asini osannanti che lo definiscono un grande cantante. Evidentemente non è vero il proverbio "Vox populi vox dei" o meglio la vox della pubblicità e dei media ha il potere di corrompere le orecchie di chi ascolta. O è l'ignoranza che ormai galoppa irrefrenabile?
Ma torniamo a Garaventa. Era un maestro del canto sul fiato. Saliva agli acuti con sicurezza spavalda. Fraseggiava con proprietà ed aveva un gusto esemplare. Un maestro autentico di vocalità, lui che aveva cominciato da baritono. Non so molto di questo grande cantante. Spero che dia lezioni di canto. Dalla sua intelligenza musicale e consapevolezza tecnica usciranno ottimi professionisti per i prossimi anni, ammesso che la politica lasci sopravvivere i teatri.

Omaggio ad Andrea M.

Ho scoperto l’opera a diciott’ anni, proprio alla fine del liceo. Senza rendermene quasi conto smisi di colpo di ascoltare Mina e i Beatles e passai definitivamente a Verdi, a Mozart e agli altri grandi.
Beh, qualche aria famosa a casa si ascoltava, almeno nei rari periodi che il giradischi funzionava e c’era in giro qualche vecchio disco che conoscevo fin da bambino. Ricordo soprattutto due “Pace mio Dio”, un 78 giri cantato da Maria Caniglia e un 45 giri della Tebaldi. Già a cinque o sei anni mi incantavo, a sentirli uno dopo l’altro e mi meravigliavo per il fatto che fossero uguali eppure diversi; forse da li è nata la mania di avere tante edizioni differenti delle stesse opere. Poca roba comunque. Che cosa fosse davvero l’opera non l’avevo ancora capito.
Sarebbe riduttivo considerare l’opera solo un susseguirsi di belle melodie. E’ la forma d’arte più bella del mondo, la più complessa ed intensa: è musica,letteratura,recitazione,canto, pittura, scenografia: cultura in una parola ma è soprattutto l’espressione di sentimenti in maniera diretta e intensa, senza filtri emotivi, magia,che dire di più? e’ una febbre.
Quando cominciò la mia mania? Forse da un “Pagliacci” alla televisione, forse da una “Traviata” finita per caso tra i miei dischi e solo in seguito ascoltata e riascoltata con attenzione. Quel che è sicuro è che da allora è stato un amore sempre più intenso,mai finora affievolitosi, una febbre –ripeto- che fortunatamente non mi è ancora passata.
Dopo un Liceo fiaccamente frequentato, per me venne l’ Università, un inizio disorientato e poi la scoperta inebriante dell’ Istituto di Storia della Musica e di docenti che non erano travet della cattedra, ma veri Maestri di cultura e di vita, amavano quello che facevano e rispettavano i loro discepoli. La frequenza in quel posto che ancora ricordo come un paradiso, un mondo esemplare, per me fu inevitabile, e la scelta, altrettanto inevitabile anche se temeraria, visto che non conoscevo la musica, fu di fare una tesi di laurea sul melodramma: La decisione a casa non destò troppi entusiasmi: Erano davvero crociani a casa mia: per loro l’Italiano o la Storia erano materie “serie”, la musica era bella si, ma serviva solo per divertirsi. Scelsi per argomento le opere giovanili di Verdi e mi si presentò subito un grosso problema: non tutte erano state ancora incise. Cominciò allora l’affannosa ricerca di dischi che spesso non esistevano. La tesi urgeva e la mia scarsa preparazione musicale non mi permetteva di analizzare compiutamente le opere sulla partitura o di ripassarle al piano. Dovevo sentirle. Come fare?
Ma non era solo quello. Amavo i dischi. Ah i negozi di dischi! Un mio amico dice che quando ci entravo avevo l’espressione famelica e sofferta del cane randagio davanti a una macelleria. Era vero, credo. I pochi soldi che raggranellavo finivano tutti in dischi, ma erano assolutamente insufficienti a placare i miei desideri di melomane, di aspirante musicologo, di collezionista.
Un giorno entrai da Ricordi e chiesi dell’ Alzira. Sapevo che non esisteva un’incisione ufficiale, ma speravo che forse, tra quei cofanetti rari, preziosi e disadorni che arrivavano ogni tanto dall’ America e che i collezionisti si passavano di mano quasi come fuorilegge..…forse.… si poteva trovare. Erano i famosi bootlegs, i primi dischi “pirata”. MRF, Morgan Records, GoP. Niente da fare, mi disse la signorina, l’ Alzira non c’era e non si poteva neppure ordinare.
In quel momento vidi che un signore anziano mi osservava interessato e sorrideva. Piccoletto, calvo, un cappottone che forse era stato elegante trent’anni prima,ma ora era fuori moda: età indefinibile, certo oltre i sessanta. Ma aveva un che di fanciullesco, soprattutto nello sguardo. Col tempo mi sono reso conto di quanto somigliasse a Cucciolo dei sette nani, anche per la calvizie e le buffe orecchie a sventola che mostrava quando si toglieva il quasi immancabile cappello.
Mi si avvicinò discreto e mi chiese “Com’ è che cerca l’ Alzira?” Glielo spiegai e subito mi disse -Io se vuole posso registrargliela. Mi dia le cassette vuote.
- E come fa ad averla?
- Ho molte registrazioni dalla radio.
Lo sapevo anch’io che alla radio trasmettevano le opere, spesso erano rarità (da mesi non me ne perdevo una) ma negli ultimi tre-quattro anni l’Alzira non l’avevano certamente trasmessa.
Comprai le cassette, gliele consegnai, mi diede il suo numero di telefono e mi disse di chiamare dopo un paio di giorni.
Qualche giorno dopo esitante chiamai. Confermò che l’ Alzira era pronta.
- Mi aspetti davanti al Politeama tra un ‘ora,, che gliela porto.
Ascoltandola scoprii che l’aveva registrata benissimo. Aveva rispettato la musica, non aveva fatto brusche interruzioni nelle facciate, aveva diligentemente copiato il cast completo e messo persino l’anno di registrazione sulla copertina. Non era l’ edizione della RAI ma la prima ripresa moderna in teatro (Roma 1967 con una meravigliosa Virginia Zeani). Un lavoro coi fiocchi. Meravigliato (i “vecchi” di solito erano pasticcioni in quel tipo di lavori) lo ringraziai calorosamente e lui incoraggiato attaccò a discorrere.
- Allora Lei è un professore?
- Ancora no. Sono solo uno studente di lettere. Ma mi dia del tu.
- No! Lei è un professore, lo sarà tra poco.
Era rispettoso o ironico?
- E che c’entra la lirica con le lettere?.-Continuò- Ai miei tempi mi pare che le lettere erano l’italiano, la storia, la geografia e la grammatica.
- Si, ma a Lettere si studiano anche altre materie di interesse culturale, come la storia dell’ arte e la storia della musica.
- Davvero? Mi fa piacere! Non lo sapevo. Ma lei le opere le ascolta per studio o perché le piace?
- Tutte e due cose. Ma le studio soprattutto perché ne vado pazzo, anche se ancora non sono un esperto. Ho cominciato da poco.
- Mi fa piacere! Pensavo che ormai l’ opera piacesse solo ai vecchi come me, invece lei è giovane.
Lo studiavo. Mi aveva colpito la sua grafia incredibilmente elegante sulle cassette. Allora non sapevo che un qualsiasi alunno di quinta elementare del 1915 aveva una grafia assai migliore di quella di un laureato del 1978. Non doveva avere un gran titolo di studio, ma parlava abbastanza bene, era intelligente, spiritoso e informatissimo.
Parlammo ancora un po’. Con molto garbo mi fece una specie di esame, voleva sapere quali fossero le opere che conoscevo, quali i miei autori e i cantanti preferiti. Spesso annuiva, qualche volta dissentiva, ma sorrideva. In complesso compresi di averlo superato l’esame.
Parlava un italiano fondamentalmente corretto anche se venato di inflessioni dialettali palermitane.
Imparai come l’accento palermitano sia adorabile in alcuni casi. Questo era uno di quelli. Il signor Andrea era ricco di humor e ricorreva ogni tanto ad espressioni dialettali spiritose. Aveva soprattutto un suo gergo personalissimo che col tempo imparai a decifrare: “Matello” = buffone poco affidabile. “Mastro Pietro” accompagnato da un certo gesto con la mano = quel cantante non ha voce, e così via.
E conosceva tutto: le opere, i cantanti, gli autori, persino la storia della musica, sia pure a livello aneddotico. Cominciavo a sospettare che a casa avesse molti, molti dischi, ma non mi sembrava il caso di chiedergli subito altre cose: meglio tenerselo buono e non seccarlo, poteva essermi ancora utile, in casi estremi . Invece mi lesse nel pensiero.
- Senta, ho pure “Stiffelio”, “Aroldo” e la prima versione del “Simon Boccanegra”. (erano le altre tre opere di Verdi che ancora non esistevano in disco) Le interessano?
- Altrochè! Ma non gliele avevo chieste perchè mi sembrava maleducato approfittare ancora.
- Che vuol dire? A lei servono per lo studio! Guardi, gliele registro e lei poi mi paga le cassette.
Toccai il cielo con un dito. La mia tesi era ormai quasi a posto. La Philips aveva annunciato la pubblicazione de “La battaglia di Legnano” e quindi ormai avevo tutti i titoli a disposizione.
A quel tempo avevo già un bel gruzzoletto di opere che sentivo e risentivo, ma non ero mai andato a teatro. Passavo spesso davanti al Politeama, (il Massimo allora era chiuso per il famoso restauro). Mi sembrava un luogo fatato e inaccessibile. In ogni caso era inaccessibile alle mie misere tasche. Ma le grandi scoperte non erano finite. Venni a sapere da un collega che a teatro si poteva entrare anche gratis. Che c’era una cosa chiamata claque, cioè delle persone che entravano senza pagare, solo per applaudire i cantanti agli ordini di un addetto. Mi sembrò incredibile, ma a quanto pare era proprio vero: si poteva andare in Paradiso in carrozza e per giunta gratis.
E scoprii anche che per entrare in teatro (luogo mitico per lo studentello paesano) non era indispensabile avere l’ abito di gala. Feci i salti mortali per conoscere il signor Emanuele, il capo claque. Non fu difficile. Ormai ero a posto. In jeans e maglione arrivavo, mi spellavo le mani, ma non solo per dovere contrattuale, quanto per entusiasmo sincero. Letteralmente mi inebriavo di quel mondo, di quelle luci, quei suoni e quelle immagini. E ancora oggi il sipario chiuso e l’orchestra che accorda mi danno un’emozione e una gioia incredibili. Assistevo quasi in trance allo spettacolo e poi via di corsa alla stazione per tornare in paese. Ma non c’era levataccia o veglia prolungata che mi potesse più trattenere. Ascoltai Salome, Porgy and Bess, Il Guarany per la prima volta in teatro. Di Macbeth ne vidi dieci recite su dodici. Se c’era il tempo aspettavo i cantanti a fine spettacolo, cercavo di conoscerli, ci scambiavo due battute e magari ottenevo un autografo o una foto con dedica. Ma vedere le opere dal vivo, specie quando le conoscevo, mi rivelava un piacere nuovo: l’ emozione di aspettare le difficoltà palpitando e gioendo quando venivano superate brillantemente. Ancora oggi a teatro la mia anima canta assieme ai cantanti e condivide i pericoli,le tensioni e le gioie. Amo profondamenteil canto.
Il problema era il solito: i pochissimi soldi di cui disponevo, ma per il treno avevo l’abbonamento mensile per studenti. Ormai partivo quasi ogni giorno con la scusa di andare alle lezioni dove in effetti passavo la mattinata, poi mangiavo un panino e aspettavo tutto il pomeriggio che arrivassero le fatidiche 18. O le 17 la domenica. (chi sa che scusa trovavo per partire la domenica?) Solo le “prime” cominciavano tardi e sarebbero state un problema, perchè non c’erano più treni per tornare, ma alle prime credo che non si entrasse con la claque. E allora, chi se ne fregava?
A teatro incontravo spesso il signor Andrea. Negli intervalli, se lo intravedevo, andavo a trovarlo e gli chiedevo giudizi e notizie. Sapevo che di voci ne capiva più di me. Io ero ancora acritico e inesperto. Lui notava i difetti dei cantanti (ma mai con cattiveria) e soprattutto aveva i termini corretti di paragone che a me ancora mancavano.
- Ci piaciu u tenuri? Si? Ma l’ ha mai sentito Corelli in quest’ aria? Si sa, di Callas ce n’ è una sola eppure questa di stasera non era male…. La Tebaldi era molto meglio a teatro che nei dischi.
- Perché lei li ha sentiti?
- Certo, tante volte, ma non solo qua a Palermo.
- E dove?
- A Catania, a Napoli, a Londra, a Nuova York.
- E come a New York?
E per la prima volta mi raccontò di sé. A 16 anni, con la quinta elementare, si era imbarcato come cameriere di bordo sui grandi piroscafi che facevano la rotta transatlantica: Genova – Palermo - New York. E lo aveva fatto per più di quarant’ anni. Poi era andato in pensione. Ma ora quelle navi non c’ erano più, concluse con tristezza, ora ci sono gli aeroplani. Quelle navi portavano i grandi cantanti dall’Europa all’America e viceversa. Lo sa che studiavano a bordo le parti?
E al primo viaggio di ritorno da New York aveva visto Caruso malato che tornava a morire a Napoli. Aveva conosciuto Puccini e visto Toscanini tante volte (ma non dava confidenza a nessuno), e poi tutti, proprio tutti i grandi cantanti del passato. Beniamino Gigli poi era amico suo: gli aveva regalato un grammofono. E aveva dischi, foto con dedica, cimeli. Mi girava la testa.
Facemmo amicizia. Diventò una piacevole abitudine chiamarlo ogni tanto, fargli gli auguri per le feste, incontrarlo ogni volta che potevo. E lui sembrava gradire la mia compagnia e le mie attenzioni. Ma non mi volle mai dare del tu, nonostante i cinquant’ anni e passa di differenza. Io ero “il professorino”. Conobbi i suoi amici i vecchi melomani collezionisti. Ma in genere non mi erano simpatici quanto lui. Lui era diverso. Poi un giorno, finalmente, mi concesse di andare a casa sua. Ero elettrizzato. Avrei finalmente visto la sua favolosa collezione di dischi? Mi spiegò dove abitava e ci andai.

Avete presente i vicoli della vecchia Palermo fatiscenti e bui, tipici di Cinico TV? Il posto era di quel genere. Una stradina sporca, e angusta, un vecchio portone di ferro arrugginito che dava su una scala da film horror. Il campanello pendeva, appeso a un filo attorcigliato. Suonai e lui si affacciò dal balcone e mi invitò a salire.
Mi venne ad aprire una creatura incredibile che scoprii essere sua cognata. Una goffa, buffa, caricaturale bambolona: alta non più di un metro e quaranta, obesa, semicalva. Radi ciuffi biondicci lasciavano la testa scoperta a chiazze e le scendevano sulle spalle strette che si dilatavano su un corpo a forma di uovo. Una specie di matrioska che si muoveva lentamente e macchinalmente, sempre in vestaglia. Due occhi celesti assolutamente ingenui e inespressivi ti guardavano meravigliati e vacui. Parlava con una incredibile cadenza buffa, in un dialetto strettissimo quasi incomprensibile. Mostrava un atteggiamento un pò da bambina, un pò da demente, ma era bonaria e cordiale o almeno lo divenne col tempo,dopo l'iniziale diffidenza. E conobbi anche suo marito, il fratello del signor Andrea: perennemente in pantaloni di pigiama e canottiera (anche lui sembrava uscito da un film di Ciprì e Maresco): era un pò più giovane e straordinariamente somigliante al fratello, ma tanto diverso intellettualmente: decisamente più simile alla moglie. Mi accolse comunque cordialmente anche lui.
- Ah pure a lei ci piace a musica, comu a me frati!. A mia puru mi piaci a musica. E me lo dimostrò: cominciò a cantare“ Mia cara matre, sta pe trasì Natale…”
Ma il signor Andrea troncò la discussione e mi condusse di là. Capii allora perché ci aveva messo tanto a farmi andare a casa sua: forse temeva il mio giudizio.
Ma le sorprese erano appena cominciate. L’ appartamento era composto da tre grandi stanze scure e un po’ polverose con annesso un cucinino. Quella d’entrata, molto ampia, aveva un tavolo nel mezzo e tutte le pareti occupate da grandi armadi anonimi, sopra i quali stavano grandi scatoloni. Anche l’unica stanza da letto (due letti uno matrimoniale e uno singolo, divisi da una coperta appesa al tetto che fungeva da separè) era piena di armadi e la piccola cucina aveva ben due file di modesti pensili di teak, una sopra l’altra. Mi accorsi ben presto che tutti i mobili di casa contenevano dischi, bobine, cassette e materiale audio. Persino i pensili della cucina contenevano tre strati di nastri. I pochi piatti, bicchieri e stoviglie stavano in una credenzina in un angolo.
In tutto quel bailamme il signor Andrea si orientava a meraviglia. Non aveva elenchi, non aveva schedari, non aveva appunti,ma sapeva sempre e con assoluta precisione dove si trovasse qualsiasi cosa e la andava a prendere con sicurezza infallibile. Intendo dire che sapeva in quale stanza, in quale armadio, in quale ripiano, in quale fila si trovasse quel che cercava,nonostante non ci fosse una logica apparente nella sistemazione. In anni e anni non l’ ho visto sbagliare mai.

Non solo: Se gli chiedevi: Che opere rare ha di Donizetti? Che ha con la Zeani, con la Gencer o con Beverly Sills? Che edizioni ha del Rigoletto?- rifletteva un pò e te le snocciolava una ad una e non credo che ne dimenticasse mai una sola. Ma era anche in grado di ricordare dove, quando, e con quale dei suoi quattro registratori aveva fatto quella registrazione (particolare importante – mi spiegò - perché a leggere una bobina con un altro apparecchio la qualità audio sarebbe stata alterata).
Possedeva almeno due grammofoni a tromba, tre giradischi degli anni ‘40, ‘50 e ’60, un buon impianto Hi Fi perché -mi spiegò- ogni disco va suonato con l’apparecchio giusto, quello del suo periodo. (Com’è vero!). Dovetti fare appello a tutta la mia buona educazione per interrompere la visita quel giorno: non sarei uscito più da quella casa.
Inutile dire che le visite divennero frequenti. Mi mostrava i suoi tesori con l’orgogliosa soddisfazione tipica dei collezionisti. In quel periodo mi comunicò che aveva deciso di fare una specie di inventario: si faceva vecchio –disse- e la memoria non lo aiutava più come prima. Non era vero, ma un elenco era troppo interessante e facile da consultare per non incoraggiarlo all’opera. Mi offrii di aiutarlo, (offerta a dire il vero interessata: agognavo di mettere il naso in quel tesoro), ma rifiutò cortesemente:
-Lei deve studiare e io non ho niente da fare. A poco a poco ci riuscirò .

E difatti lo fece con una certa velocità. E vedere gli elenchi era tutta un’altra cosa: i miei appetiti di collezionista aumentarono vertiginosamente, ma non potevo ragionevolmente pretendere che passasse settimane intere a registrare cassette per me. Ma visto che i miei desideri crescevano, mi propose lui stesso di prestarmi un grande registratore a bobine: mi avrebbe dato tutti i nastri che volevo e li avrei copiati a casa con comodo. Se tra chi mi legge c’è un collezionista incallito, quindi patologicamente geloso dei suoi “tesori”, sa quanto valore potesse avere una tale offerta. Era una grande dimostrazione di affetto e di fiducia. Ne approfittai, ma con la maggiore parsimonia possibile. E lui lo capì e gradì.
Ma ormai non ci legava solo l’opera; erano deliziose anche le passeggiate che facevamo quando talvolta lo incontravo in centro o decidevamo di uscire. Andavo per offrirgli qualcosa, ma cercava di pagare sempre lui: Dio, quanto mi ci volle per riuscire a offrirgli un semplice caffè
- Lei è studente e gli studenti – mi perdoni - sono sempre senza "picciuli". Lasci fare a me. E poi ai ragazzi i soldi servono.
Aveva capito che ero “di buona famiglia” come disse lui, ma decisamente squattrinato (questo non me lo disse mai).

Poco a poco mi raccontò altri particolari della sua vita. Aveva dodici fratelli e sorelle, ma non era in buoni rapporti con nessuno, tranne che con quello con cui viveva.
Era rimasto presto orfano di padre, aveva adorato la madre con cui aveva sempre vissuto,almeno quando non era in viaggio, e alla quale, con la buonuscita e i risparmi, aveva comprato un appartamento “da signora”. Ma morta lei, i suoi fratelli pretendevano di spartirselo quell'appartamento, come se fosse di tutti e aveva dovuto sostenere anche una causa che aveva vinto. Ma ora lui per ripicca lo teneva chiuso. Non ci andava spesso. Dentro ci teneva solo i dischi (colpo al cuore per me – difatti avevo notato che quelli che teneva in questa casa, anche se tanti, erano troppo pochi rispetto agli elenchi) ma “per ora non ci si poteva andare”. Non indagai oltre sul perché. Aggiunse però che se volevo qualcosa, bastava dirglielo e in un paio di giorni sarebbe andato a prenderlo. Ah quanto avrei pagato per entrare in quell’Eden di vinile!
Sul treno di ritorno ripensavo a questa madre adorata morta a 98 anni, al suo ostinato celibato, alla sua vita strana, tutta consacrata ai dischi e all’opera. Non tentai mai di approfondire la questione, non era il caso. D’ altra parte lui non sembrava minimamente intenzionato a scoprirsi oltre e comunque non pareva avere interessi equivoci nei miei confronti. Mai fece un’ allusione, mai si tradì. E allora perché era così gentile con me? Forse gli stavo simpatico per il mio entusiasmo verso l’ opera, forse si sentiva solo,almeno intellettualmente. Per anni la nostra amicizia continuò discreta e serena, approfondendosi lentamente ma progressivamente, pure restando in apparenza distaccata, sempre un po’ cerimoniosa e per certi versi surreale.

Mi laureai finalmente e lo invitai al semplice rinfresco che i miei parenti cittadini avevano organizzato per me. Declinò l’ invito. Insistetti a lungo senza poterlo convincere. Fu irremovibile. Addusse improbabili impegni, poi disse che quel giorno dovevo stare solo coi miei, che in quell’occasione lui non c’entrava. Capii che era timido e forse un pò diffidente. Probabilmente temeva giudizi malevoli, per il nostro strano, anche se innocente rapporto. Mi chiese però a che ora avrei preso il treno dopo il buffet e a sorpresa si fece trovare alla stazione. Aveva un regalo per me. E che regalo! Una copia della Maria Stuarda di Donizetti con Beverly Sills. Introvabile allora e da me molto desiderata. Stampa americana. Splendida. Inutile dire che ancora la conservo gelosamente. Mi commosse.
Dopo la laurea cominciai subito ad insegnare e naturalmente le mie gite a Palermo si diradarono, quindi lo vedevo meno spesso. Ma ogni tanto lo chiamavo. E ogni volta che tornavo in città, immancabilmente andavo a trovarlo.
Passavano gli anni. Sembrava sempre uguale. Quando usciva era sempre inappuntabile, coi suoi cappottoni anni quaranta che non mancava mai di indossare se non a luglio e agosto. Coi suoi gessati grigi, eleganti e fuori moda e con l’immancabile busta di dischi o adesso di CD sotto braccio.
Comprava meno dischi di prima. Era meno interessato ai cantanti giovani, ma il suo giudizio era sempre lucido e intelligente. Aveva un pregio rarissimo tra i vecchi appassionati: non era un’ottuso “laudator temporis acti”. Era aperto alle novità e notevolmente curioso.
Ora anch’ io ero in grado di registrargli cose che non aveva (e che gradiva moltissimo): conoscevo i suoi gusti e raramente sbagliavo. Ma ogni omaggio che gli facevo, la volta successiva lo ricambiava con uno di valore uguale o superiore.
Un inverno fu molto freddo e lo vidi un po’ affievolito. Sembrava stanco, sorrideva meno ed era dimagrito, lui che pure era cosi smilzo. Somigliava meno al Cucciolo dei sette nani. Andava raramente a teatro e ormai usciva poco. Mi disse che era triste. I suoi coetanei, gli amici che frequentava, con cui ascoltava e scambiava musica, a poco a poco erano morti tutti: l’ ultimo il mese prima. Era uno un pò fanatico, gli era stato antipatico per anni, ma ora gli mancava persino lui.
- E oramai non andrò più in giro a vedere le opere –concluse-. Si figuri che prima arrivavamo a Bari, a Napoli, a Cosenza. Col treno, col pullman,con la macchina. Ora che sono solo non mi va più di muovermi. Peccato. Il mese prossimo a Catania c’è una bella edizione de “Il Pirata” di Bellini. Canta la Aliberti, la conosce?, è siciliana, è di Messina come lei; è brava.
Fu un lampo: finalmente forse potevo fare qualcosa per lui. Organizzai tutto, acquistai i biglietti, e con la mia utilitaria partii dal paese, andai a prenderlo a Palermo, lo portai a Catania, assistemmo all’ opera, lo invitai a una veloce cena e lo riportai a Palermo. E poi via a casa. Fu un vero tour de force, arrivai all’alba, ma ero soddisfatto. E anche lui, anche se molto stanco, era felice come un bambino. E non credo che dipendesse solo dall’opera che aveva visto.
Per Natale lo chiamai, ma non rispose nessuno e neppure a Capodanno. Mi preoccupai, ma non sapevo a chi chiedere notizie, non avevamo amici in comune, e forse per la prima volta mi resi conto che ormai doveva essere piuttosto vecchio. Ma quando finalmente tornai a Palermo, lo incontrai sotto i portici di Piazzale Ungheria.
Era un pò ingrigito, ma non sembrava stare troppo male. Mi fece una gran festa e andammo al bar. Era stato malato, era finito in ospedale e anche suo fratello era stato male. Ecco perché per le feste nessuno rispondeva al telefono. Mi disse che aveva deciso di regalare il famoso appartamento ai parenti ingrati. Meglio fare pace concluse: “una volta si campa”. Ma si era portato tutti i dischi a casa. Aveva preso degli altri scaffali per sistemarli. Poi mi chiese a bruciapelo: li vuole comprare tutti i miei dischi i nastri e gli apparecchi? E mi chiese una cifra bassissima, assolutamente ridicola. Io rimasi perplesso e gli chiesi perché: Mi addusse motivazioni assurde: si era stufato, erano troppi, voleva liberare la casa. Incalzai: E perché lo chiedeva a me? E perché chiedeva così poco? C’erano molti collezionisti a Palermo che avrebbero fatto follie per i suoi tesori. Mi rispose in maniera vaga e poi cambiò discorso. Rifiutai, non mi sembrava giusto.
Ah che stupido sono stato! Come ho fatto a non capire? Era un modo garbato e distaccato di regalarmi il tutto. (Probabilmente la cifra simbolica, serviva solo a liberarmi da eventuali fastidi coi suoi rapaci eredi). Ma non ne avrei mai approfittato. Anche a pagare quel materiale, avendone la possibilità, cento volte di più di quanto mi aveva proposto, mi sarei sentito troppo in colpa a sottrarglielo, almeno finchè era vivo e poteva goderselo.
Non potevo immaginarlo, ma fu l’ ultima volta che lo vidi: Nelle settimane seguenti chiamai e richiamai, ma ancora una volta il telefono taceva. Lo ricordo ancora a memoria quel numero. Purtoppo passò diverso tempo prima che potessi tornare a Palermo. Quando potei farlo, proprio mentre mi dirigevo verso casa sua, incontrai un conoscente comune che mi disse a bruciapelo: “Lo hai saputo che è morto il signor Andrea?”
Me lo aspettavo, lo temevo, ma il colpo fu notevole. Andai subito a casa sua. Bussai. Nessuno. Neppure i vicini sapevano niente, provai ad informarmi, ma non ebbi alcuna notizia; un palermitano di un quartiere popolare non dà volentieri notizie sui vicini a uno sconosciuto. Ritornai ma inutilmente altre volte. Mi misi il cuore in pace.

Passò qualche anno. Non c’ero più tornato da quelle parti. A fare che? Evitavo addirittura quella zona. Neppure adesso ci passo volentieri. Via Cluverio, Via Houel, le stradine interne….Mi fa troppa tristezza. Poi un amico, anche lui melomane e collezionista, mi convinse a tornarci. “Pensa che quei tesori magari finiranno buttati in qualche discarica o dispersi nelle bancarelle. Tentare di acquistarli è anche un modo di onorare la memoria del tuo amico”. Potrei condividere la spesa con te….. – Siamo strani i collezionisti. Lui sognava di mettere le mani su qualche disco raro, io esitavo, mi sembrava ancora di profanare la sua memoria. Mi sentivo in colpa soprattutto per non essergli stato abbastanza vicino nell’ ultimo periodo. Poi, per le insistenze del mio amico mi decisi e tornai in quella buia stradina.
Bussai senza farmi troppe illusioni e invece, incredibilmente si aprì il balcone e si affacciò la cognata – matrioska.
Non mi riconobbe. Eppure non era passato troppo tempo. Poi, a poco a poco sembrò ricordarsi, sia pur vagamente, ma non di me, quanto di quel periodo e degli amici che venivano a trovare il signor Andrea. Ma non volle lo stesso aprirmi: aveva paura. Tuttavia se il mio nome e la mia faccia non le dicevano più niente, era il ricordo di un passato evidentemente migliore che a poco a poco sembrò riaffiorarle in mente, e si mise a parlare, sempre dal balcone, e mi raccontò gli eventi degli ultimi anni. Farfugliava, molto confusamente, e si mise presto a piangere, Parlava sempre più accorata, con la voglia torrenziale di sfogarsi tipica di chi vive solo da troppo tempo.
Il signor Andrea, era morto dopo una breve malattia e poco dopo era morto anche suo marito. Anche lei era stata male, era finita all’ ospedale e durante la sua degenza qualcuno aveva forzato la porta e svaligiato la casa. Avevano portato via tutto. E ora lei era sola… sola… sola…. Nessuno l’ aveva aiutata a farsi dare la pensione, non aveva nessuno che le andasse a comprare le medicine…. Lo ripetè mille volte. E piangeva, piangeva, tragicamente buffa, come un surreale pupazzo dagli occhi celesti inespressivi, con le ciocche sparpagliate, sempre più rade, che da bionde ora erano biancastre.
Rimasi ad ascoltarla un bel pezzo, poi, oppresso da una ridda di sensazioni penose, la salutai e me ne andai. Per strada riflettevo: credo persino di avere un’idea di chi possa essere stato il mandante del colpo. Era stato chiaramente un furto su commissione. Pianificato per bene ed eseguito al momento opportuno. Per prendere e portare giù tutta quella roba saranno occorsi almeno una notte, diverse e robuste braccia e se non un Tir, certamente un grosso furgone.
Oggi quel che non sarà stato distrutto durante il saccheggio o buttato da chi non era interessato, è in casa di qualche ricco, cinico collezionista. Uno di quelli che a quanto pare, avevano fatto offerte di acquisto al fratello, col signor Andrea ancora steso sul letto di morte, poco prima del funerale. Ma non è questo che mi fa più rabbia. Mi dispiace soprattutto che in quel colloquio non pensai di chiedere alla povera donna dove fosse sepolto il signor Andrea. Mi sfuggì di mente, non so perché.
Ci sono tornato ancora, ma nessuno abita più là. E io non ho mai portato un fiore sulla tomba del mio amico, Ma il suo ricordo gentile, il suo sorriso, la voce ironica, gli occhi vivi e allegri, quella faccia che somigliava tanto al Cucciolo dei sette nani, me li porterò sempre dentro.

La Stupenda..Joan Sutherland

• Gli inizi degli anni sessanta videro Joan Sutherland assurgere alla celebrità. Anche per lei il successo non fu facile nè incontrastato. Partita negli anni cinquanta da un repertorio che oggi ci sembrerebbe assurdo o comunque assolutamente inadatto di lirico spinto, (Eva dei Maestri cantori, Amelia del Ballo in maschera, Aida) aveva scoperto sè stessa con l’aiuto del marito, il valente pianista direttore e musicologo Richard Bonynge. Quando approdò al suo vero repertorio sbalordì subito: lo strabiliante nitore del suono, la potenza degli acuti, il virtuosismo funambolico non si prestavano a obiezioni di sorta. Lasciavano invece piuttosto perplessi la modesta padronanza dell’accento italiano e il rifiuto di scandire e accentare le parole. Inoltre anche l’interpretazione sul versante drammatico appariva talvolta gelida o inerte. Ma quando la Sutherland cominciò ad esplorare il repertorio belcantistico, Haendel e il settecento in genere non c’era obiezione possibile da muoverle. Si era scoperto un nuovo mondo. Purtroppo i tempi non erano maturi e per lei le occasioni di registrare opere di questo periodo furono poche.
• La formidabile Alcina del 1962 non ebbe quindi seguito se non con qualche recital e qualche selezione (Montezuma di Graun, Griselda di Bononcini e Giulio Cesare di Haendel). A proposito del Montezuma la grande aria tripartita “Non han calma le mie pene” è uno degli esiti più alti di tutta la gloriosissima carriera discografica della Sutherland. Virtuosismo strabiliante, voce perfetta e perfetto stile con variazioni esemplari nello stile antico, come a suo tempo sottolineò in un articolo illuminante un’autorità in fatto di vocalità belcantistica come Rodolfo Celletti.
• In quegli anni la Decca cominciò ad incidere le opere di repertorio integralmente. Fu un’altra meravigliosa occasione per i melomani: scoprire minuti e minuti sconosciuti di ottima musica anche in titoli famosi come Traviata, Lucia, Elisir d’amore, Norma fu sorprendente ed esaltante. Ed era interessante notare come le opere restituite al loro disegno originale diventavano più armoniose, coerenti e drammaticamente logiche.
• Per merito della casa inglese apparvero il primo Barbiere di Siviglia integrale e con Rosina mezzosoprano, le già citate Traviata e Lucia che presentavano brani praticamente sconosciuti al pubblico, visto che in qualche caso erano omessi anche dagli spartiti della Ricordi e dai libretti, vale a dire i “da capo” delle due arie di Violetta e le cabalette di Germont padre e figlio:” Tra le incisioni di spicco bisogna ricordare una Norma epocale,quella della Sutherland, ovviamente agli antipodi di quella della Callas: tanto quella era tragica e intensa, tanto questa era tersa e lunare. Accanto alla cantante australiana appariva per la prima volta in disco un formidabile mezzosoprano americano di nome Marilyn Horne. Metà della critica internazionale si indignò dell’inerzia della Sutherland nelle scene concitate e drammatiche l’altra metà (certo più opportunamente) andò in visibilio per lo strabiliante nitore del canto, per l’incredibile levigatezza dei suoni e per il puro belcanto che le due cantanti avevano saputo reinventare nei duetti e sembrava recuperare i fasti do cantanti leggendari come le sorelle Marchisio o la Pasta e la Grisi. Entrambe avrebbero arricchito repertorio e discografia col loro prodigioso lavoro per almeno due decenni.

Difatti l'instancabile Joan ha inciso moltissimo; sempre con esiti straordinari. La serietà dell'approccio e dello studio, il professionismo esemplare, la "marziana" onnipotenza della voce le hanno concesso di essere Turandot e Lucia, Violetta e Desdemona. Pochissime volte il suo infallibile canto non è andato a segno: forse le possiamo rimproverare solo il troppo ritardato Ernani finale ahimè conclusione indegna della sua stellare discografia e una Adriana Lecouvreur in cui troppo pesa l'inesattezza della sua pronuncia italiana. Ma quanto non ci ha dato questa stupenda cantante?
Artista seria, severa, poco incline allo star sistem, ha sacrificato forse successo e denaro per cantare e incidere, con pochissime eccezioni, sempre e solo col marito il grandissimo già citato Richard Bonynge. Ma non era un capriccio: fino a qualche anno fa l'inserire cadenze o variare i "da capo"non era considerato filologicamente ineccepibile ma piuttosto una bizzaria retrò da diva.
E comunque nessuno avrebbe servito la sua arte come Bonynge. Oggi ce ne rendiamo conto.
Donna imponente e un pò rigida ha rivelato inaspettate doti comiche e un humour delizioso quando l'opera eseguita glielo ha concesso, vedi la meravigliosa "Fille du Regiment".

Divina Unica Immensa....La Callas


• Maria Callas era arrivata da sconosciuta in Italia nel 1946. Povera, grassa e goffa, agli inizi si era adattata al repertorio “pesante” (Wagner, Gioconda, Turandot) per sbarcare il lunario senza peraltro riuscire farsi notare. Poi nel 1949 a Venezia, pochi giorni dopo aver cantato Brunilde, cantò da soprano leggero nei Puritani e con tale impresa strabiliò il mondo della lirica, dando inizio alla sua irresistibile ascesa.
• E’ stato detto che aveva una “brutta” voce. Cioè emetteva talvolta del suoni aspri e striduli e mostrava vistose disuguaglianze timbriche. Ciò è’ vero. La strabiliante estensione (oltre tre ottave, da contralto a soprano leggero, almeno negli anni migliori) non permetteva ovviamente che tutta la gamma fosse omogenea. Ma la sua voce “brutta” era capace di suoni incantevoli e di caratterizzazioni perentorie: Si ascoltino le arie della Sonnambula o di Norma per rendersene conto. Aveva la capacità innata di diversificare stili autori, situazioni sceniche e momenti drammatici. Nessuno l’ha più superata nel fraseggio drammatico e rovente, nella capacità di accentazione, nella chiarezza della dizione, nella capacità di creare personaggi a tutto tondo.
• Si è molto discusso se fosse una donna colta. Aveva una preparazione musicale di prim’ordine ed era un’ottima pianista Sicuramente oltre ad avere un geniale intuito fu una magica “spugna” capace di assorbire ogni input culturale che le venisse proposto da direttori registi e colleghi validi. Ebbe la capacità formidabile di recuperare quasi medianicamente una tecnica perduta e ridarci la temperie particolare del neoclassicismo che è così difficile da rendere (Medea, Vestale, Norma) specie per un artista straniero,così come seppe comprendere e rendere quanto fosse ben diverso il romanticismo protoromantico di Bellini (Sonnambula), rispetto a quello pieno di Donizetti (Lucia e Bolena) o di Verdi (la sua Leonora del Trovatore, a parer nostro resta magnifica in assoluto e impareggiabile nel quarto atto). Ma anche in settori solitamente sottovalutati del suo repertorio diede segni meravigliosi di intuito ed originalità. Il suo Mozart era moderno sanguigno e incisivo, non smidollato ed esangue come lo voleva la moda del tempo, e anche in piena decadenza vocale, nelle ultime incisioni ufficiali, seppe dare prove insuperabili come nell’ aria “Amour viens aider ma faiblesse” dal Sansone e Dalila di Saint Saens.
• Seppe anche sfruttare le venature scure e sataniche della sua voce a fini espressivi (la sua Lady Macbeth o l’Abigaille del Nabucco non hanno paragone) e persino comici (si ascolti il divertente trapasso timbrico nel duetto con Geronio nel Turco in Italia, precisamente tra la fine dell’andante “voi crudel mi fate oltraggio” e l’allegro “ed osate minacciarmi…”. Infine, almeno negli anni d’oro, la sua voce fu impareggiabile e camaleontica in un repertorio enorme e con un registro praticamente illimitato. (Si pensi al leggendario Mi sopracuto emesso nel concertato del secondo atto di Aida a Città del Messico e al formidabile registro basso e al veemente fraseggio esibiti nella prima registrazione di Gioconda o ancora allo strabiliante virtuosismo delle registrazioni dal vivo delle variazioni di Proch o di “D’amore al dolce impero” dell’ Armida di Rossini).
• La Columbia (che con altre etichette sarebbe poi confluita verso il 1970 nella EMI) su cui regnava il geniale produttore anglo-tedesco Walter Legge, nel 1952 mise a segno due colpi straordinari: stipulò un contratto in esclusiva con la Callas e programmò una collana di registrazioni di opere complete in collaborazione col Teatro alla Scala nelle quali la grande cantante greca avrebbe fatto la parte del leone: gli inizi furono magnifici: una Norma che per certi versi rimane insuperata, una Tosca con De Sabata altrettanto celebre,e “I Puritani”, titolo allora desueto: La Callas era in genere affiancata da Giuseppe Di Stefano e da Tito Gobbi, allora parimenti popolari, ma che oggi paiono sgradevolmente agli antipodi da lei per capacità vocali e stilistiche. Ben presto però la casa discografica ritenne di impegnare la cantante greca in ruoli poco adatti del grande repertorio in cui il geniale soprano aveva meno da farsi valere per motivi di tessitura o di indole psicologica: Cavalleria, Pagliacci, Forza del Destino o la Boheme. Il tutto mentre la sua fama cresceva nel mondo per le geniali riprese di opere sconosciute o dimenticate del repertorio ottocentesco.. Non si ritenne di farle registrare Armida Macbeth, Vespri Siciliani, Anna Bolena, Il Pirata, Poliuto e La Vestale. Di tutti i suoi trionfi teatrali in queste opere allora rare o sconosciute, solo la Medea fu affidata al disco, ma non dalla sua etichetta bensì dalla Ricordi, e a quanto pare solo per l’insistenza della cantante. La Columbia che proprio non credeva nell’operazione, la liberò eccezionalmente dall’esclusiva. Delle opere riesumate dalla Callas cui deve gran parte della sua fama, sono rimaste solo le precarie testimonianze dal vivo che i fans registravano e collezionavano. Per ironia della sorte, la cantante greca combattè con grande accanimento la commercializzazione di queste registrazioni con le quali certo non guadagnava un soldo, ma cui oggi è legata oggi la sua fama imperitura. Solo nell’era del CD la Emi ne ha recuperato alcune, le ha sommariamente restaurate e le ha pubblicate peraltro a prezzo piuttosto elevato.
La Callas fece a poco a poco capire che trilli volatine e roulades, non erano una vana concessione all’edonismo vocale, ma un preciso modo di evocare uno stilizzato mondo di sogno, di comunicare emozioni. Che la vera espressività non si ottiene con una vocalità turgida e plateale (come dettava il verismo) ma allusiva e, ripetiamo, stilizzata. Ecco perché quando la cantò lei parve alla critica più avveduta di sentire Norma per la prima volta, ecco perché si cominciò a riscoprire il valore del canto di bravura.
La sua lezione non fu subito compresa ed accettata unanimemente. Il pubblico più conservatore continuava a rimproverarle le ben note disuguaglianze timbriche, la voce fisicamente “brutta”. Fu addirittura discusso il suo Verdi che invece appare oggi perfetto. Ma il suo esempio fece scuola e vennero la Gencer, la Zeani e la Sutherland, la Caballè e le altre grandi. Nessuna di loro ha mancato di ammettere che fu proprio la Callas ad ispirala.
Purtroppo della più grande cantante del 900 esistono pochissime,incomplete testimonianze in video e il patrimonio delle registrazioni live cui si deve il ricordo maggiore della sua arte non è tecnicamente di buon livello.
Sconvolse il mondo della lirica sin dal suo apparire. Capace di cambiare repertorio da un giorno all’altro, oggi Brunilde e Isotta, la settimana dopo Elvira e Lucia. Di perdere quaranta chili in pochi mesi e da grassa e goffa che era, diventare sottile, bella ed elegante, di intrigare i rotocalchi più di una stella del cinema. Ma oltre i clamori della mondanità, fu in realtà una donna sola, triste ed austera, che quando la sua voce si affievolì, rinunciò ai lauti guadagni che ancora avrebbe potuto ottenere solo patteggiando sulle tessiture o apparendo in parti più facili per essere fedele al suo concetto di arte: rimane con pieno merito un grande mito della nostra epoca.

Viva Beverly Sills



• Beverly Sills, nacque nel 1928 in America da una famiglia ebrea russa. Fu una bambina prodigio,ma i suoi genitori decisero che avrebbe ricevuto una ragguardevole educazione musicale e culturale, prima di dedicarsi professionalmente all'arte. Debuttò negli anni Cinquanta ma ad onta del suo talento non riuscì a “sfondare” per tutti gli anni sessanta producendosi in un’anonima routine di cui restano curiosi anche se precari cimeli. Basti pensare che cantò Aida o Tabarro di Puccini Alla fine, anche a seguito di gravi problemi familiari, si era “parcheggiata” alla New York City Opera, il piccolo (allora) teatro, rivale del gigante Met, che in quegli anni però con una intelligente politica di titoli e con la scelta oculata di giovani cantanti in ascesa, viveva una stagione esaltante, proprio mentre il rivale segnava una pesante crisi economica.
La Sills fu il fiore all’occhiello di molte produzioni e si guadagnò una certa fama. Aveva una voce piccola e un po’velata, di non particolare fascino timbrico, ma agilità formidabili, estensione mirabolante, classe, musicalità e fantasia incredibili, doti che la rendevano incomparabile nel repertorio belcantistico. Ottima fraseggiatrice, musicista provetta (si scriveva da sé variazioni e colorature alternative) si conquistò un esercito di ammiratori fedelissimi. Approdò al disco tra il 1968 e il ‘70 con la trilogia donizettiana delle regine inglesi. Erano stati trionfi in teatro negli ultimi anni, ma erano ancora inediti per il microsolco ufficiale e la Sills ce le offrì in edizioni integralissime, con buoni cast vocali, ottimi direttori e magnifica qualità di registrazione. Furono grandi e sorpendenti successi discografici.
• Nel 1969 la Sills trionfò alla Scala in una fantastica “riesumazione” de l’Assedio di Corinto di Rossini, sotto la bacchetta di Thomas Schippers e accanto ad un’altra formidabile cantante che emergeva prepotentemente nel repertorio belcantistico: Marilyn Horne. Fortunatamente l’opera di cui esiste anche la registrazione "live" è stata consegnata al microsolco dalla EMI con un cast molto simile in cui la Horne per esigenze di scuderia fu sostituita dalla non meno valida Shirley Verret che, già nota nel repertorio tradizionale, si manifestò belcantista esimia. Da allora, nei pochi anni di attività che le rimanevano, incise un buon numero di opere complete, quasi sempre prime registrazioni o edizioni integrali e molto curate di opere note, riproposte in maniera filologica e innovativa che costituiscono un tesoro inestimabile per chi l’ha amata. Notevoli anche i suoi recitals molto originali ed intelligenti. Purtoppo nel 1979 gravi motivi di salute le imposero il ritiro dalle scene. Ma seppe ancora diventare un’oculata manager e un’abilissima conduttrice televisiva di programmi culturali.
Tra i suoi capolavori, ma la sua intera discografia ufficiale è un capolavoro, una magnifica Lucia di Lammermoor, Les contes d’Hoffmann in cui impersonava tutti e quattro i ruoli femminili e ancora Puritani e Capuleti e Montecchi di Bellini.
Si concesse anche una Norma, certo vocalmente resa in maniera non del tutto adeguata, ma non priva di grandi momenti. Ancora tra le sue incisioni migliori non possiamo non ricordare il prodigioso recital dedicato a Mozart e R.Strauss, la sua Pamira dolente e funambolica del citato "Assedio di Corinto", l’Elisabetta del Devereux, resa con fine psicologia: esteriormente rabbiosa e autoritaria ma intimamente fragile. Fortunatamente di tale ruolo è rimasto anche un video. Da ricordare anche almeno una Thais di Massenet resa con sottile psicologia e una Manon di Massenet che a nostro avviso rimane ineguagliata
Donna forte, generosa, intelligente e colta non si arrese alle terribili avversità della vita e oltre che grande artista fu impegnata in politica e nel sociale. Grazie Beverly di quanto ci hai dato, grazie del tuo sorriso e della tua classe